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                                                                                 Igea Marina, 9-13 Settembre 2022

 

Universi interagenti

 

Per quanto io mi ritenga un pessimo scrittore, sento che mettere nero su bianco idee e riflessioni al computer sia come veleggiare in mare aperto, nel silenzio rotto soltanto dal dolce sciabordio delle onde delicatamente accarezzate dal vento fresco e benevolo di un mattino soleggiato. Il tavolo su cui lavoro è bianco e bello ampio, le due finestre ad arco dello studio in mansarda sono spalancate su un cielo caratterizzato da squarci di azzurro e da complessi cumuli nubiformi, a tratti densi, che gareggiano per conquistare spazi sempre maggiori nell'incerta giornata di oggi. Ieri sera il cielo a Sud era scuro e minaccioso, i lampi avanzavano lentamente come fossero inquietanti messaggeri di guerra. Tutto sommato sembra che questa mattina le cose stiano prendendo una piega diversa. Aperta è la porta che divide la veranda dalla stanzetta in cui ora mi trovo. Aperti sono due vetri della stessa veranda che si apre alla strada e agli spazi sottostanti da un'altezza che permette di godere di un bel panorama, soprattutto verso i dolci Appennini situati ad ovest rispetto alla mia posizione.

Ormai la calda stagione volge al termine, in questo periodo dell'anno la mia memoria densa di sensazioni, che spesso sconfinano in emozioni stantie ma non per questo sgradevoli, mi predispone all'ascolto di voci e rumori più lievi e rarefatti, quelli che caratterizzano uno scenario sonoro decisamente meno stressante dopo un'estate rivierasca piuttosto frenetica e chiassosa. Quando frequentavo la scuola, da studente, in questo periodo dell'anno l'odore un po' acre dell'aria settembrina si mischiava a quello caratteristico della cancelleria scolastica e dei nuovi libri dalle copertine lucide e dalle pagine ancora immacolate, mentre una sottile adrenalina s'impadroniva di me anticipando l'inizio di un anno scolastico che si sarebbe concluso solo alle porte dell'estate successiva. Sempre si preannunciava un lungo percorso, foriero sì di sofferenze funzionali alla crescita individuale ma anche di nuovi stimoli e di nuove vicende sentimentali, perlopiù platoniche. Quasi «prove generali» in vista di stagioni diverse e più complesse ma anche di maggiori soddisfazioni (dicasi maturità).

In questo clima un po' decadente di fine estate mi trovo così a riflettere su una questione che oggi sento particolarmente vicina: è giusto tradire una persona di cui si è innamorati o comunque verso la quale si prova una stima incommensurabile? È diventato normale aprirsi (o forse sbracarsi) a una moltitudine di possibilità che rischiano di imprigionarci in una babele di rapporti interinali quanto inconcludenti, non per questo scevri di rischi oggettivi? La risposta che darei oggi è no. Non è giusto. Premesso che il mio punto di vista è «eterosessuale» (non mi azzardo a entrare in mondi affettivi che non mi appartengono, verso i quali provo comunque rispetto), sono dell'opinione che quando si instaura una relazione sentimentale con una persona di sesso opposto, che sia basato unicamente su un confronto di idee e di emozioni o che sconfini in rapporti carnali anche completi certo qualcosa importa, soprattutto nella misura in cui un'unione totale e simbiotica può portare a ben maggiori conseguenze e implicazioni in prospettiva futura, credo sia fondamentale considerare un aspetto importante: ciascuno di noi non è fatto solo di un corpo fisico ma è portatore di un universo interiore avvicinarsi, comprendere e accettare il quale non è mai facile. Due universi che si incontrano e che entrano fra loro in un rapporto interrelativo e simbiotico si ampliano vicendevolmente, a volte in maniera esponenziale, dando vita a un'unica realtà composita che pur deve lasciare i necessari spazi a entrambi gli emisferi, poiché è giusto e sacrosanto che essi mantengano una propria autonomia affinché una relazione tanto accrescitiva non degeneri in qualche forma patologica e devastante rispetto ad essa.

Da ragazzo avevo una vita sentimentale molto disordinata e tutta protesa verso il sesso facile, quello privo di implicazioni affettive che non fossero passeggere e che non dileguassero in un arco di tempo necessario a trovare altre fonti di piacere e a vivere altre emozioni anch'esse fugaci ed evanescenti a sufficienza, nella ricerca spasmodica di una meta illusoria che sapevo già si sarebbe spostata in avanti. In fondo credo si trattasse della volontà di congelare il mio stato fisico, mentale e sociale nell'illusione di poter evitare la clessidra del tempo, che per la mente acerba di un giovane si può rendere dolorosamente evidente qualora si sia chiamati ad affrontare concretamente tappe cruciali della vita come il matrimonio e soprattutto la paternità (nel caso degli uomini). Si, insomma, una persona molto giovane percepisce in sé ritmi frenetici e spesso cangianti, ha bisogno di suoni forti (i giovanissimi mediamente preferiscono la chitarra elettrica a quella acustica/classica), gode delle dissonanze forse non tanto nella misura in cui creano contrasti in un gioco che necessita anche di una forte presenza di «tranquille consonanze», ma per il semplice fatto che nelle durezze sonore essa riconosce i propri nodi interiori generati dall'incontro tra la sua natura dionisiaca e il Super-io (ovvero l'insieme delle regole e dei divieti imposti dalla società. A cominciare dalla famiglia e dalla scuola, a loro volta portatrici di «valori» calati dall'alto). Infatti, viene il momento in cui il giovane sente il bisogno di prendere le distanze dall'adulto e cerca la compagnia dei coetanei, vuole integrarsi in un gruppo in cui tutt'al più vi sia la presenza di giovani più grandi che possano accompagnarlo verso un'età più evoluta in termini di possibilità e di autonomia, nella speranza di trovare come in una frenetica volata ciclistica l'anima gemella da condurre eventualmente su un'isola deserta, lontano da possibili rivali e dalle cattiverie degli invidiosi e dei sadici. Poi, in questo sofferto percorso di crescita, nel migliore dei casi egli si rende conto sempre meglio che le «dissonanze» sono parte della vita in ogni suo aspetto, perfino in quelli più ludici, e che forse anche una musica meno «dionisiaca» può essere accettata se non addirittura apprezzata. Procedendo lungo il percorso di maturazione, raggiunta l'indipendenza dopo una lunga fase di dipendenza dalla famiglia, dalle regole e dagli orari asfittici della scuola, l'individuo in condizioni normali ormai non più ragazzino (confesso che oggi uso il termine «normalità» con una certa fatica) si sente proteso verso forme di interdipendenza, nella fattispecie verso una relazione sentimentale più seria e duratura, nel frattempo avendo meglio acquisito il senso della caducità della vita anche attraverso lutti ed altre esperienze più o meno dure e angoscianti. Sempre parlando di una persona in condizioni normali, quindi che non sia preda di patologie gravi, o che comunque ne condizionino un accettabile maturazione, egli (sempre nel migliore dei casi, sia chiaro) arriva a un grado evolutivo che gli consente di trovare il cielo in una stanza, ovvero di riconoscere l'infinito con le sue innumerevoli possibilità all'interno di un ambito circoscritto, così come nell'ambito circoscritto di una grande musica è possibile trasmettere valori archetipici che attraversano i secoli, forse anche i millenni, valori che utilizzano forme, contrappunti, armonie, ritmi e soluzioni timbriche quali fossero componenti di un'unica navicella spaziale con la quale esplorare l'universo infinito.

In questa nuova fase evolutiva, qualora ci si sia dotati del mezzo necessario, della «navicella spaziale», per l'appunto, possiamo ragionare in ben altri termini e considerare la possibilità che ciò che siamo oggi sia assai diverso da ciò che eravamo quando il nostro spirito libero solo in apparenza non era ancora dotato della necessaria forma, dei necessari mezzi per affrontare ogni dissonanza con vero spirito guerriero, compresa la peggiore delle «durezze» che credo sia individuabile nell'orgoglio infantile/adolescenziale. Ragion per cui, in fondo, mettendola neppure troppo metaforicamente in termini musicali, la dodecafonia schöengberiana presa alla lettera e non come momento di passaggio forse anche provvidenziale, rappresenta un cortocircuito poiché trascina sensibilità e pensiero su un terreno minato, del tutto instabile, in cui lo squilibro si fa ordine diabolico o disordine autolesionistico a seconda dei casi (o dei punti di vista). Come dice anche il bravo M° Giuseppe Modugno, già collaboratore di Corrado Augias nella realizzazione della collana di DVD su alcuni grandi musicisti che hanno fatto la storia, il quale mi ha fatto l'onore di chiedermi per primo l'amicizia su facebook (la modestia è propria dei grandi personaggi), ciò dopo uno scambio di opinioni sull'opportunità di realizzare una nuova collana di DVD specificamente sui più significativi musicisti contemporanei, la dodecafonia, che dapprima ha rappresentato «una scoperta copernicana», avrebbe fatto il suo tempo. Anche se personalmente ritengo che il passaggio storico che ha visto lo scardinamento non poi così definitivo del sistema della grande tradizione musicale occidentale e del suo centro tonale abbia aperto effettivamente la strada a una tonalità diversa, più fresca e aperta a nuove vie e a nuove soluzioni senza rinnegare i valori che stanno alla base della grande tradizione europea.

Per non perdere di vista la questione di fondo, anche se in questi casi rientrare in una dimensione «più terrena» non è facile, nel tempo le proprie dissonanze interiori o «durezze psicologiche» (prendiamoci anche questa licenza terminologica), certo oggetti/grumi da tenere sotto controllo ma che non dovrebbero condizionare più di tanto la persona adulta, possono essere ben governati e può diventare molto più facile farlo qualora il fine giustifichi lo sforzo. E quale fine migliore, può esserci, di un ampliamento del proprio essere in combinazione con un universo più che compatibile, col quale, in un rapporto sinergico, poter ottenere risultati di più alto livello e dai possibili sviluppi esponenziali? Ritengo pertanto che l'unico vero tradimento sia quello compiuto ai danni di se stessi, o meglio, ai danni di un rapporto intenso e assonante che diventa parte integrante di sé sulla base di un sentimento autentico, non viziato da interessi particolari. A prescindere dalle inevitabili dissonanze che mai mancano sul terreno della vita. Viceversa, un rapporto viziato da sottili inganni a livello di fondamenta è già di per sé a rischio tradimento, il quale in tanti casi diventa un agente riequilibratore finalizzato all'annullamento di uno stato spirituale sbilanciato verso il «non senso», verso una condizione priva di vera forza e foriera di un nichilismo valoriale che inevitabilmente conduce a un'esistenza piatta caratterizzata da un'inutile ricerca di perfezione, che non può che trovare nell'auto-illusione il proprio vettore. In effetti, se siamo entrati in una spirale diabolica a livello di relazioni umane, ciò è dovuto all'acquisita incapacità di ricercare la vera bellezza nell'incontro tra spiriti affini, nella frenesia di un mondo sempre alla ricerca del «tutto e subito» e incurante della verità, la quale si manifesta nella gioia di incontrare la persona amata anche soltanto per vederla, per sentirla vicino e scambiavi qualche sguardo e qualche parola che mai sembreranno inutili. Se sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Non discuto che all'inizio di un rapporto sia facile commettere errori di valutazione, poiché la carne è debole e la ragione si addormenta facilmente. Tuttavia mi chiedo se non sia il caso di usare il «tradimento» per rompere uno schema nel tempo destinato a diventare una gabbia, asfittica, piuttosto che auto-imporsi una meccanica coerenza nel prosieguo destinata a rivelarsi conseguenza di un pensiero ottuso, quello sorretto e difeso da una componente patologica del Super-io, la quale nasconde sadismo dietro i panni pesanti di una falsa giustizia sociale o finanche divina. Il pensiero ottuso di cui parlo è quello che misere persone simili a palloncini gonfiati cercano di imporre al resto della società per giustificare la loro propria pigrizia o le paure che ne impediscono l'evoluzione, o per mascherare l'ignoranza di cui sono prigioniere e l'invidia che troppo spesso ne consegue. Così come un'opera d'arte non ha valore in sé, poiché ha senso solo nella misura in cui crea movimento nella storia, svelando nuovi spazi ai contemporanei, così la bellezza del vivere è da ricercare nell'assonanza e nell'affinità con un universo tutt'altro che da ridimensionare a proprio uso e consumo, semmai da difendere rispettandone caratteristiche e grandezza e da esso attingere e farsi attingere per crescere effettivamente in un comune percorso spirituale. La vera bellezza si rende visibile laddove basta poco per essere felici, se per felicità s'intende quel senso di pienezza che invade l'essere e che ci fa sentire parte di un tutto. Il resto appartiene in gran parte alla dimensione terrena, troppo terrena, dei dettagli. La mia può sembrare una valutazione egoistica, perché estraniandomi dalla pesante realtà materiale per salvaguardare una verità più pura faccio (volutamente) i conti senza l'oste, se per oste s'intende tutto ciò che quanto meno per motivi di responsabilità non può essere escluso dalla propria vita se non al prezzo di creare dissonanze anche peggiori, per altri versi. È anche vero che verità più alte esistono, e sono proprio quelle che oggi vengono maggiormente sacrificate sull'altare di un «Sistema» la cui violenza ci spinge verso il basso, verso condizioni di vita che rischiano di diventare insopportabili e controproducenti rispetto ai valori tradizionali che solitamente, in condizioni normali, ci proponiamo di difendere. Oggi siamo costretti a muoverci nell'ambito di una cultura «rave» (rave significa delirio) e paradossalmente la mafia internazionale artefice della globalizzazione forzata fa leva proprio sulla difesa dei «valori fondamentali», o finora considerati tali (in realtà dovuti a null'altro che a contingenze storiche, secondo i detentori dell'attuale potere mondiale), ma solo per tenerci inchiodati all'impossibilità di mantenerli disperatamente in vita se non al prezzo di rinunciare alla bellezza qui da me un po' frettolosamente definita. Così, in un mondo sempre più dichiaratamente distopico, «utopia» diventa tutto ciò che esulando dalla «nuova normalità» procura benessere interiore rischiando di riesumare energie e speranze finalizzabili al risveglio delle coscienze, a beneficio della società. Difficile, allora, trovare punti d'equilibrio quando si è costretti a correre controvento su un terreno pieno di buche, quando la grandine viene utilizzata «ad arte» per frenare ulteriormente la corsa dei più volenterosi, quando il precipizio ai bordi dell'impervio sentiero, aperto su ampi panorami mozzafiato, diventa l'unica alternativa possibile alla necrotica disperazione. Forse allora è il caso di cambiare sentiero, di cercarne uno non meno impervio ma che almeno permetta di gestirsi con maggiore autonomia, lungo un itinerario dotato di nicchie ristoratrici per mente e spirito e che lasci spazio alla speranza di trovare prima o poi uno sbocco vero, un luogo (dell'anima) in cui poter contemplare verità più alte e pure poiché anch'esse, e in certi casi di più, fanno parte della natura (umana e in senso lato).

Quanto alla «realtà materiale», qui intendendo con ciò il normale vivere quotidiano, la mia esperienza lavorativa mi ha permesso di cogliere realtà pulsanti al di fuori degli schemi sociali e degli stereotipi: figli di papà che crescono tra paure e presunzioni e figli di nessuno che invece diventano autonomi e intraprendenti ne sono un esempio. Ciò che può fare la differenza è proprio l'incontro con un universo affine col quale interconnettersi e interagire, col risultato di accrescere molto la fiducia in se stessi e di rinvigorire le proprie energie vitali.

Quando sto per esaurire questo mio afflato intellettuale (concedetemi un'espressione solo in apparenza piena di presunzione) il tempo si è fatto più soleggiato ed è tornato anche il caldo. Ho un po' perso lo stimolo poetico di qualche giorno fa, allorché l'atmosfera era più marcatamente autunnale grazie a un passaggio temporalesco che quanto meno aveva spezzato la monotonia di giornate meteorologicamente tutte uguali. A volte il cambiamento atmosferico riattiva energie e sembra voler ricordare che le cose prima o poi potranno assumere una piega diversa e migliore. E chi, oggi, non spera che la situazione politica e sociale cambi nella direzione di una «vera normalità», quella che si cerca maldestramente di nascondere dietro uno stuzzicadenti sperando che nel frattempo la gente abbia raggiunto un tale livello di stupidità da non accorgersene? Se illusionista e colui che mostra una falsa verità facendo uso dell'inganno, l'arte della prestidigitazione è oggi imperante nei palazzi della politica che prende spunti da veri o sedicenti «esperti». Ma, non illudiamoci, l'arte della prestidigitazione viene molto usata anche nell'ambito delle comuni relazioni umane (quindi non solo da chi appartiene alle più alte sfere sociali e ha tutto l'interesse a mantenere o a cambiare lo status quo). Lo avevo già scritto in una precedente «Riflessione» (così definisco i miei modesti scritti perché non sembrino arroganti dissertazioni: tutti possono e dovrebbero «riflettere» sulle cose del mondo, poiché bene o male tutti ne facciamo parte. Nessuno escluso!). Ma quando si è disposti a rinunciare alle proprie tecniche illusionistiche per mettersi realmente in gioco, col rischio di esporsi a mille sofferenze (che sempre rappresentano un inevitabile contraltare alle gioie luminose che un vero rapporto amoroso dona), allora il discorso cambia e si accetta di non dare mai nulla per scontato. Si accetta di rinnovare ogni santo giorno la propria disponibilità affinché la relazione con la persona amata sia protetta da invidie e cattiverie, da adulazioni sottili o più o meno dichiarate, da inviti al tradimento da parte di chi non sopporta l'altrui felicità o l'altrui tentativo di costruire qualcosa di veramente bello e importante. Non va neppure dimenticato il contesto che attraverso la rivoluzione sessantottina (o «psichedelica», come l'ha definita Mario Arturo Iannaccone in un suo bel libro) il «Sistema» ha creato ad hoc cominciando solo ora a raccogliere importanti e visibili risultati. Un contesto che induce i deboli a rinunciare alla vera bellezza in nome di una libertà sessuale che solo illusoriamente elimina la «clessidra del tempo» (di cui parlavo). Un contesto pianificato e costruito dalle «élites», dunque, le quali hanno gettato abilmente le basi per la definizione di una società priva di punti fermi, vittima di incantesimi e tradimenti, intasata da una moltitudine di drogati e di sbandati incapaci di metter su famiglia e più facilmente manipolabili nell'ottica della depopolazione mondiale tanto cara ai «santi filantropi» del nostro tempo (di cui ormai è perfino inutile ripetere i nomi e ben altri ce ne saranno annidati nei gradi superiori e più nascosti della massoneria internazionale, la quale purtroppo rimane un tabù per l'opinione pubblica).

Mi congedo dando un'ultima occhiata fuori dalle finestrelle ad arco del mio studio in mansarda, ora leggermente socchiuse, dalle quali entra gentilmente un sole settembrino che sembra volersi scusare per la violenza espressa nei mesi più caldi dell'anno. Buona parte di Luglio e Agosto è stata infatti dominata da un opprimente caldo africano che mi ha indotto a cercare sollievo in mezzo alle foreste appenniniche. Così, tra castagneti e boschi di faggio è nato il mio amore per le lunghe camminate all'aria aperta, un amore che non potrà che aumentare visti i risultati che ho ottenuto a livello di salute fisica e di lucidità mentale.

 

                                                                           Davide Crociati

 

 

 

 

 

 

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