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                                     “V” come “Vittoria”

                (Riflessione sulle parole di Bollani a "Che tempo che fa")

 

Contrasti e ripetizioni caratterizzano tanti capolavori artistici d’ogni epoca. Risulta che nel Novecento un certo avvocato di nome Igor Stravinskij abbia “imposto” non solo armonie dissonanti e materiali melodici e ritmici sempre cangianti a orecchie ancora impreparate (vedi la celebre analisi de “La Sagra della Primavera” di Pierre Boulez), ma anche sequenze ripetute da far invidia a gruppi rock di primo livello. Al di là dell’odierna sintesi, che nei linguaggi espressivi tradisce l’assenza dei presupposti spirituali che un tempo stavano alla base della creatività, credo ed anzi sono anzi convinto che Beethoven e Mozart vadano celebrati ancora oggi come “moderni”. Mozart faceva parte d’una massoneria che coltivava nuovi ideali, considerati assai “pericolosi” dall’aristocrazia del tempo, gli stessi che avrebbero trascinato la Francia nella rivoluzione più cruenta. Si pensi a “Le nozze di Figaro”, il cui protagonista è un personaggio del popolo (credo che Goldoni abbia fatto la stessa operazione dissacrante nell’ambito del teatro); si pensi anche alla libertà di pensiero che traspare dalla lettura di opere come “Così fan tutte”! E se da un lato la Vienna di allora era tutt’altro che una “terra di illibati”, sicuramente anche ai tempi di Beethoven la società pullulava di personaggi conservatori e arretrati, mentre non si può dire che l’artista tedesco guardasse al passato trascurando il futuro. Fatto sta che nella sua epoca egli è vissuto da “moderno” e come tale oggi dovremmo ricordarlo, fatti i dovuti rapporti. Del resto come si può pensare che un uomo del 2011, posto che il suo livello mentale sia all’avanguardia, pretenda di comportarsi come si comporteranno i posteri del 2200? Quante e quali scoperte si faranno ancora, in 200 anni, se si considera lo sviluppo esponenziale che l’informatica sta conoscendo e che conoscerà in futuro?

Se ha senso visitare città come Firenze o Roma e musei importanti al cui interno evidentemente troveremo opere del passato, emanazioni di valori superati, non vedo quale disturbo possa provocare l’ascolto di cellule ritmiche come quella che introduce la quinta sinfonia di Beethoven: “tre brevi e una lunga”. In tempi moderni possono semmai infastidire certi barocchismi pianistici anche di stampo jazzistico (come alcune interminabili cascate di note ascoltate su Rai 3 dalla Dandini) che poco si conciliano con opere architettoniche assolutamente sobrie qual è, per esempio, la nuova chiesa di S.Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano, che sembra invitarci a non cercare il riflesso di dio su ornamenti esagerati quanto piuttosto su pareti lisce e prive di fronzoli: dio non ha bisogno di “effetti speciali”.

Già, “tre brevi e una lunga”, come se tante volte nel jazz non ci si aggrappasse senza scrupoli a ripetizioni anche ostinate, spesso dovute a momentanee assenze di fantasia: una melina di cui hanno fatto uso un po’ tutti i jazzisti, compresi i più important. Qualcuno dice che Beethoven abbia tratto quella breve sequenza di note dal canto di un uccello (il musicista era solito fare passeggiate nel parco, anche sotto la pioggia), mentre per altri essa rappresenta “il destino che bussa alla porta” con improvvisa drammaticità. Al di là di eventuali significati filosofici (a chi non lo sapesse ricordo che Beethoven era anche filosofo) la ripetizione di elementi è riscontrabile un po’ in tutti gli ambiti. Anche in natura ci sono eventi che si ripetono ciclicamente secondo sequenze preordinate, e presso certe popolazioni arretrate gli etnomusicologi del secolo scorso hanno riconosciuto in tre grida uguali un segnale di pericolo o di stupore. "Ha ha haaaa!" ...ricordate la risata ingenuamente sarcastica del ragionier Fantozzi? Tornando alla musica, nell’introduzione dell’Inno nazionale ci sono sequenze di note ripetute. Ma qua e là ne troviamo anche nel coro del Nabucco, negli assoli di Miles Davis, nelle svisate trasgressive di Jimmi Hendrix, in opere di Gershwin e di Luciano Berio, nelle improvvisazioni dei più grandi percussionisti e naturalmente in tana musica popolare. Raffaella Carrà riconosce il battito di un cuore appassionato nelle pulsazioni ostinate della musica rock. Insomma, gli esempi di elementi ripetuti sono numerosi in ambito sia colto che popolare. “Tre brevi e una lunga”: come tre passi col cuore in gola cui fa seguito un improvviso arresto dovuto a qualcosa di inatteso, un pensiero recondito e temuto che riaffiora improvvisamente; poi, per un attimo, la corsa riprende costringendo quel pensiero al di sotto della coscienza, ma subito il dubbio riemerge prepotente e ad un nuovo arresto segue una pausa che ha la profondità d’un baratro… Il destino che bussa alla porta… Beethoven, splendido Caronte, inquieto traghettatore di anime illuministe, di menti irrigidite dal dominio dell’intelletto, inaridite da vane ideologie e da speranze disattese… Alla fine la natura le riassorbe in un abbraccio materno e asciuga sulle loro sagome sbiadite i segni della disillusione, i liquami del sudore acido di mortificazione e sofferenza. Allontanandosi progressivamente dall’allora pensiero dominante, rifiutando regole dall’alto che non fossero da egli stesso riconosciute come “universali”, Beethoven uomo e artista scelse di rispondere di se stesso e delle proprie azioni. Scelse l’infernale anticonformismo per orientare la prua della storia verso il paradiso dell’incertezza e l’ingratitudine della natura, verso le ombre dell’inconscio e gli abissi del “tutto è possibile" riconducibili al pensiero gnostico. Nel caso specifico, per iniziare il viaggio scelse “tre brevi e una lunga”, liquido sonoro dentro cui è immerso l’intero primo tempo della quinta sinfonia. Altro è, il “capra! capra!” di casa nostra; altra cosa sono le ossessionanti, ripetitive e un po’ feticistiche salmodie ideologiche all’indirizzo di un unico personaggio che tanto solitario pare non essere; ed altro, sono, certe martellanti storielle (anche quelle ideologiche assai più che pedagogiche) che troviamo regolarmente su una miriade di testi scolastici, di musica nella fattispecie: una fra tutte quella secondo cui “Woodstock” avrebbe rappresentato un grande evento di pace, amicizia e fratellanza (aggiungerei "di allucinogeni" , ovvero l’inizio di un incubo, di un processo unificante e spersonalizzante).
 

                                                                 Davide Crociati

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